Joker film analisi psicologica rispecchiamento madre 22 Ott 2019

BY: admin

Psicologia e cinema

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di Federica Elia

 

Chi è Arthur?

Arthur non esiste, non può esistere.

La prima maschera che Arthur ha imparato ad indossare è quella della proiezione materna: una maschera che lo imprigiona in un personaggio-figlio costretto a sorridere, a ridere, a far ridere, a fare sempre buon viso a cattivo gioco. Cattivo Joker, che prima di soffocare quelle proiezioni materne finalmente ammette tutta la sua sofferenza: “Non sono stato felice nemmeno un solo giorno di tutta la mia vita”.

Risata forzata, che tende a scivolare automaticamente in una smorfia di dolore e che, ancora forzatamente, Arthur riporta costantemente alle sembianze di un sorriso, quel sorriso di cui la madre aveva bisogno per evitare di contattare l’abisso della disperazione in cui ella versava.

Tutta l’ambientazione del film ci fa vivere quella miseria, quella disperazione, quel degrado (i ratti) che invade la città tanto quanto le anime di madre e figlio. Il regista ci trascina in quel degrado, ci riempie gli occhi di calcinacci rovinati, ci disturba la mente con scene di povertà, dove la gente è abituata ad aspettarsi di cadere a pezzi.

Il rispecchiamento da parte del genitore

“Non dimenticare mai di sorridere”: è il dramma di chi non può esistere tenendo fede al suo autentico vissuto, ma deve vivere secondo aspettative e pre-concezioni che stanno nella mente di un genitore incapace di rispecchiare il proprio figlio per quello che è, per quello che sente.

Se vuole essere amato ed accettato da sua madre, Arthur dovrà essere sempre, soltanto, “Happy”.

La nostra esistenza in quanto esseri umani inizia dal rispecchiamento: un bambino vede negli occhi della madre la propria gioia o il proprio dolore, ed in quella gioia o dolore si può sentire e riconoscere.

È attraverso la mente della madre – l’idea che la madre ha del proprio figlio – che il bambino impara a conoscersi e a definirsi. Uno sguardo d’amore materno può far sentire un figlio realmente amato.

È così che prendiamo forma e consistenza umana, è così che iniziamo ad esistere: qualcun altro ci rimanda il senso di chi noi siamo.

Ecco perché Arthur sente di non essere mai esistito, e anela una morte che abbia più senso della sua vita, laddove il senso è dato dal venire rispecchiati e riconosciuti.

Una madre adottiva psichicamente disturbata

Adottato da una madre che non lo ha mai “visto” al di là delle proprie proiezioni distorte, che non ha mai dato voce né valore al disagio e alla sofferenza di questo figlio, Arthur prende progressivamente coscienza di una madre psichicamente disturbata e priva delle necessarie capacità di accudimento; una madre che proietta sul figlio adottivo l’etichetta di disturbo, quella etichetta che Arthur porta sempre con sé per informare gentilmente gli altri sulla sua risata e provare almeno a non farli sentire ridicolizzati, lui costantemente umiliato e calpestato in una dignità che alla fine può non valere più la pena difendere.

In tal senso, il biglietto si fa strumento atto a materializzare la patologia psichica materna, proiettata sul figlio (adottivo, quindi esente da qualsivoglia eredità genetica), il quale la rende poi sua identificandosi in essa.

Ci ha provato ad avere una vita “normale”, a dedicarsi ai più deboli, a fare l’unica cosa per cui la madre lo riesce a contemplare: un comico, un pagliaccio, uno che deve far ridere la gente.

Ci ha provato a recitare quella parte, ma qualcosa non va, qualcosa non regge. La verità incalza, la rabbia ha più diritti della bontà, le lacrime disegnano un sorriso sbavato, e Joker fagocita Arthur con tutte le sue ridicole forzature, in un crescendo di catastrofica e dannata liberazione interiore.

Stanco di far finta di provare ciò che non prova, Joker diventa il portavoce dei reietti e di tutti coloro che hanno silenziosamente avallato un sistema in cui i potenti se la godono ed i deboli abbassano consensualmente la testa.

Il consenso è bruciato, non c’è più niente da ridere.

L’unico sorriso, ormai, Joker può solo disegnarselo con il sangue.

Ed è per questo, forse, che alla fine proprio non ce la facciamo ad odiarlo.

Tu riesci ad odiarlo? Io no.

E non si tratta di giustificare, ma, per una volta, di comprendere.

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