Parlare della morte in psicoterapia 15 Ott 2018

BY: admin

Psicoterapia

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Durante un percorso di psicoterapia è del tutto naturale che si arrivi, a un certo punto, a mettere al centro della discussione il tema della morte. E ciò non si lega necessariamente a un lutto e alla perdita di una persona cara, da affrontare. Può avere a che fare, ad esempio, con un compleanno, con il manifestarsi dei segni del tempo nel corpo, dalle rughe fino alla menopausa, con una particolare fase della vita, come l’allontanarsi dei figli e l’esperienza del nido vuoto, con il pensionamento, la nascita dei nipoti. Tutti questi accadimenti della vita portano con sé il pensiero del tempo che trascorre inesorabilmente e ci porta verso la fine.

È qualcosa che ci ossessiona in modo costante. Anche se non vogliamo ammetterlo ed erigiamo delle difese, spesso basate sul meccanismo della negazione, per tenere questo pensiero lontano dalla mente e dalla nostra parte consapevole.

La morte filtra in ogni discorso. Emerge nei sogni, si manifesta attraverso l’ipocondria, spesso sta sotto alcuni sintomi che non sono altro che la manifestazione del non detto, di quello che viene represso e nascosto nel fondo dell’interiorità.

La morte è presente in ogni percorso di psicoterapia. Non parlarne sarebbe completamente assurdo, anche se, talvolta, alcuni terapeuti evitano il discorso. Si pensa, magari, che sia inutile tirare fuori il tema con un paziente ansioso, causandogli ulteriore stress. O che sia più utile concentrarsi su altre questioni, più contingenti.

Ma esistono molte buone ragioni per parlare della morte nel corso di una psicoterapia.

Parlare della morte per esaltare la vita

Innanzitutto, il pensiero della morte ha la capacità di salvarci. Ci permette, cioè, di ridefinire le nostre priorità, di comprendere il reale valore del tempo e di vivere davvero appieno.

È quello che accade in alcune grandi opere di letteratura. Un esempio, probabilmente noto a tutti, è Canto di Natale di Charles Dickens. Il protagonista, Scrooge, è un uomo avido e meschino, che ha trascorso tutta la sua esistenza votato alla ricerca del denaro. Ha allontanato da sé tutti, facendosi il vuoto intorno, impoverendo le proprie relazioni anziché alimentarle, fino al punto di restare completamente solo. La vista del fantasma del Natale passato e di quello del Natale presente lo sconvolgono, ma non lo cambiano. Lo mettono soltanto di fronte al rimpianto. Quando, però, può vedere il futuro e la sua morte, vive un’esperienza che lo tocca profondamente e lo trasforma in un uomo nuovo.

È quello che si vede accadere, in molti casi, ai malati terminali, coloro che sanno di avere un tempo molto breve. La morte è inevitabile, non c’è possibilità di sfuggirle. Ma dà un significato nuovo alla vita. La morte, usata come pietra di paragone, rende banali e trascurabili gli incidenti, le paure e tutti quegli eventi che fino a un momento prima ci hanno frenato, fatto arrabbiare, rattristato.

Heidegger parla di due modalità dell’esistenza: il modo di tutti i giorni e il modo ontologico.

Quando siamo nel modo di tutti i giorni, è come se fossimo trasportati dal flusso, distratti da quello che ci circonda, consumati dagli eventi e da quel che ci capita. Quando, invece, siamo nel modo ontologico, ci focalizziamo sull’esistenza in sé delle cose e, andando al di là delle preoccupazioni quotidiane, siamo in uno stato di ricettività che predispone al cambiamento.

Per raggiungere questo modo ontologico è necessaria un’esperienza di confine, qualcosa di così forte da scuoterci, strappandoci al quotidiano per inchiodarci all’essere in sé. Il confronto con la propria morte è l’esperienza di confine più forte. Ma, in psicoterapia, anche l’esperienza del lutto può diventare il terreno fertile per affrontare la questione con il paziente.

Così anche l’attacco di panico ci conduce a un confronto diretto con la morte. Quel senso di sbigottimento e smarrimento di fronte al nulla, che è l’angoscia, ci singolarizza, cioè ci riporta a noi stessi e ci permette, in ultima istanza, di riscoprire la vita autentica.

Nell’idea della morte c’è la possibilità di una vita vissuta realizzando davvero noi stessi.

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