terapia familiare secondo carl whitaker 19 Ago 2020

BY: admin

Psicoterapia

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Una figura di spicco che merita di essere ricordata per il suo contributo alla terapia familiare è sicuramente quella di Carl Whitaker (1912-1995). Uno studioso e terapeuta il cui lavoro venne rigettato dall’establishment psicoanalitico dell’epoca, a causa dell’approccio rivoluzionario e del metodo da lui stesso messo a punto. Il suo primo libro “Le radici della psicoterapia”, scritto in collaborazione con Tom Malone, viene condannato dai più per “aver rigettato la storia, la cultura e la civilizzazione, investendo la patologia di valore morale ed elevando la razionalità a supremazia trascendentale”.

Non è un caso che Whitaker chiami il proprio approccio “terapia dell’assurdo”.

Quella di Whitaker è una filosofia eraclitea, fondata sul panta rei, sul divenire delle cose nel quale bisogna ritrovare la vita e la salute. È nella disperazione e nella sofferenza umana che Whitaker vede la molla esistenziale al cambiamento, ciò che spinge l’individuo a cambiare sé stesso e, quindi, la propria vita, ritrovando il benessere.

Come scrive Maurizio Andolfi nel saggio “Panta rei: la filosofia di Carl Whitaker”, Whitaker è fermamente convinto che ciascun individuo appartenga alla propria famiglia, a quel nucleo in cui nasce e cresce e che costituisce le sue radici profonde.

Allo stesso tempo, Whitaker manifesta una profonda fiducia nelle risorse interiori del singolo che possono essere riscoperte all’interno del gruppo di appartenenza cioè della stessa famiglia. Nel corso delle sedute terapeutiche, lo psicoterapeuta usa sé stesso per incontrare il dolore dell’altro, per entrare in contatto con la sofferenza e le paure del paziente che ha di fronte.

Non è tanto il sintomo a interessarlo né i comportamenti che rappresentano la manifestazione del malessere. Al di sotto di essi, Whitaker cerca la persona stessa. Attraverso la terapia, quei sintomi si trasformano in immagini relazionali, in strumenti per comprendere la famiglia nel suo insieme, nelle sue dinamiche profonde. La psicoterapia familiare proposta dallo studioso ha come oggetto effettivo la famiglia trigenerazionale, senza un limite. In controtendenza rispetto a una società improntata sempre di più all’individualismo, alla frammentazione e liquefazione dei legami, a una dimensione familiare frantumata in cui le persone sono sempre più sole, la sua impostazione cerca di ricucire i fili spezzati, connettendo le generazioni e spingendo lo sguardo sempre un po’ più in là, oltre quello che viene concepito come il massimo.

La famiglia deve assumersi le proprie responsabilità

Per creare un contesto realmente terapeutico, secondo Whitaker, è necessario evitare di lasciarsi manipolare dai giochi familiari. Allo stesso tempo, egli ritiene poco appropriato se non controproducente lasciare che la famiglia deleghi al terapeuta la responsabilità di dettare le linee guida del cambiamento.

La famiglia deve assumersi la responsabilità delle proprie scelte.

È così convinto di questo principio, al punto da ritenere poco utile delineare un piano strategico. Tanto che, a conclusione di una seduta, non soltanto non anticipava nulla dell’eventuale incontro successivo, ma neppure prende l’iniziativa per fissare un altro appuntamento.

È la famiglia in terapia che, sorpresa di una simile impostazione, chiede se ci saranno altre sedute. La sua risposta è sempre: “Naturalmente, se voi volete tornare, io sono qui per ricevervi”.

In poche parole, l’iniziativa viene dalla famiglia stessa, che deve sforzarsi di ritrovare al proprio interno risorse ed energie vitali.  Questo è un punto fondamentale nell’approccio terapeutico da lui promosso: prendersi troppo cura delle famiglie rischia di condizionarle e farle mettere in una posizione di sudditanza e passività.

C’è inoltre il pericolo di un eccessivo coinvolgimento emotivo da parte del terapeuta, che ha bisogno di lavorare in una dimensione di separatezza emotiva.  A questo proposito, Whitaker non scrive mai i nomi dei pazienti sull’agenda. Preferisce, stando alle sue parole, “non portarsi le famiglie a casa”.

L’importanza della presenza di tutti i membri del nucleo familiare in terapia

C’è poi un altro modo di fare che può essere confuso con autoritarismo ma che, invece, è legato proprio a questa impostazione e alla filosofia che c’è dietro. Se una famiglia non si presenta al completo, se manca uno dei componenti, lui la rimanda indietro.

È come se l’elemento mancante avesse più peso e significato della presenza di tutti gli altri, un ruolo chiave per comprendere l’organizzazione emotiva del nucleo familiare.

Andolfi ricorda una terapia familiare da lui stesso condotta per la quale ha chiesto una consulenza a Whitaker. Si parla di una famiglia siciliana composta da una madre vedova e da otto figli adulti, tutti ancora molto dipendenti da lei, sia dal punto di vista economico sia da quello emotivo. Ebbene, durante quella seduta di psicoterapia, l’argomento principale è l’assenza di uno dei figli e l’impossibilità di proseguire il percorso terapeutico senza la partecipazione di tutti i componenti del nucleo familiare.

“Fu proprio porre l’accento su chi mancava, che rese possibile ai presenti riflettere su sé stessi e sui propri giochi relazionali così ben collaudati nel tempo” scrive Andolfi. L’attenzione a ciò che non c’è così come il focus su come le famiglie organizzino le proprie relazioni affettive su processi di inclusione ed esclusione, sono insegnamenti fondamentali. Così come la possibilità di rendere presenti gli assenti attraverso degli oggetti metaforici che rimandano a loro come una sedia vuota o un cappello. Ma anche attraverso il linguaggio. Si può, infatti, immaginare l’altro come se fosse presente, nella stanza, in quello stesso momento. Oppure si può giocare con il telefono e far telefonare all’altro assente, realmente o soltanto per finta, per farlo sentire incluso.

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